Bruno D'Agostino, Museo di Ischia, Convegno sugli Eubei, maggio 2018
con Nota Kourou, Irini Lemos e Matteo D’Acunto
Bruno D’Agostino, laureato a Napoli con Domenico Mustilli (allievo e collaboratore della Scuola nel 1925-28) è arrivato alla Scuola nel 1960, sette anni prima della fondazione della rivista Dialoghi di Archeologia, che in Italia è stata il manifesto di una epocale “rivoluzione archeologica”, patrocinata da Ranuccio Bianchi Bandinelli.
Quale era negli anni ’60 l’archeologia italiana in Grecia in rapporto all’archeologia italiana in Italia?
Nel 1960, l'unica voce novatrice, nel panorama archeologico, era quella di Bianchi Bandinelli. Quanto alla ricerca sul terreno, la tradizione stratigrafica era sopravvissuta solo nell'ambito pre-protostorico, soprattutto grazie all'esempio di Luigi Bernabò Brea. Per il resto era largamente condiviso lo scetticismo derisorio nei confronti del metodo stratigrafico. Come in Italia, anche in Grecia la formazione era legata all'antiquaria e alla storia dell'arte come storia dei maestri e dei capolavori. Il processo di crescita, anche nell'ambito della Scuola, era largamente affidato alla trasmissione orizzontale del sapere, e all'iniziativa personale.
La formazione alla Scuola di Atene prevedeva e prevede ancora, tra le attività formative, le “esplorazioni” della Grecia (come venivano chiamate) e la partecipazione agli scavi. Il tuo percorso è stato condiviso anche da altri allievi ateniesi: dopo il diploma di Specializzazione sei stato funzionario di Soprintendenza e quindi professore all’Università, con una lunga carriera. I viaggi e gli scavi della Scuola quanto hanno contato nella tua formazione di archeologo?
La mia frequenza della Scuola fu limitata al solo 1960. Ma qualche anno dopo, quando ormai lavoravo in Soprintendenza grazie alla generosità di Mario Napoli, fui richiamato a collaborare allo scavo di Iasos, dove passai quattro mesi, tra il 1963 e il 1965. A Iasos non c'era ancora la Casa della Missione, e le condizioni del soggiorno erano avventurose. Pur con questi limiti, l'esperienza della Scuola è stata determinante nella mia formazione: i primi mesi passati ad Atene furono di full immersion nei musei e nei monumenti, con la guida di Judeich e del Lippold, e con l'ausilio del manuale sulla architettura del Dinsmoor. La preparazione meticolosa dei viaggi, che riuscimmo ad estendere a tutte le regioni della Grecia, si accompagnò alle visite infaticabili, spesso con mezzi di fortuna, e fondamentale fu il lavoro di ricerca comune con i miei compagni di corso: Gabriella d'Henry e Giovanni Colonna. Lo scavo-scuola nel villaggio geometrico di Festòs fu preceduto da notti insonni: come mi sarei dato un metodo? Come avrei osato manomettere quelle 'reliquie'? Alla fine venimmo premiati: in occasione della visita del Console italiano, il prof. Levi vantò il mio piccolo saggio stratigrafico come un esempio della pronoia che la scuola ci aveva inculcato! Del direttore ricordo la capacità di guardare alla vita con gli occhiali dell'ironia, e le interminabili discussioni con Platon sulla cronologia del Minoico. Ricordo con nostalgia Maria e Kostas, i due numi tutelari di noi allievi, che ci iniziarono ai piaceri della cucina greca, e della grande umanità, che avevamo peraltro modo di apprendere nella vita greca di ogni giorno.
Nel 2019 la Scuola ha compiuto 110 anni, un saeculum secondo la cronografia etrusca. Della Scuola sono stati allievi oltre 50 soprintendenti e più di 170 professori dell’Università, oltre a direttori di musei e aree archeologiche, architetti e funzionari del Ministero dei Beni Culturali: i dati quantitativi e qualitativi attestano una funzione di primo piano nella formazione dell’"establishment" dell’archeologia italiana. A oltre 110 anni dalla sua istituzione, la Scuola è rimasta un’istituzione radicata nella sua tradizione, senza condividere il perpetuum mobile cui sono soggette le università italiane: selezione rigorosa degli allievi migliori, formazione impegnativa e per molte ore al giorno in un collegio, viaggi e visite a siti e musei, molte lezioni e seminari e una biblioteca aperta 24 ore, coinvolgimento degli allievi in attività di ricerca come parte essenziale della loro formazione. Come vedi il futuro della Scuola, in relazione al suo passato e nella prospettiva dei nostri tempi?
La Scuola è destinata a conservare un ruolo importante nel presente e nel prossimo futuro: essa dà vita a una comunità scientifica, polifonica ma coesa, aperta al quotidiano rapporto con la città e con l'archeologia greca. La sua presenza è ancor più necessaria oggi, mentre negli Atenei italiani l'archeologia del Mondo Greco sembra avere un ruolo sempre più di nicchia, e raramente riesce ad attrarre l'attenzione di una opinione pubblica, che appare sempre più distratta, risvegliata solo da chi predica che gli antichi erano come noi: sarebbe invece necessario far comprendere i caratteri peculiari della cultura greca, misurando la distanza da quel mondo e spiegando perché abbiamo sempre e ancora bisogno di far rivivere i suoi valori.
E come vedi il futuro dell’archeologia italiana?
Il riassetto dell'Amministrazione dei Beni Culturali ha inferto un duro colpo a un sistema di tutela che ci veniva invidiato dalle principali nazioni dell'Occidente. E dal suo canto la riforma universitaria ha ridisegnato il percorso formativo, riducendo il tempo dedicato all'apprendimento delle conoscenze di base e riservando uno spazio insufficiente alla laurea dottorale. In questo modo è diventato di fatto impossibile impegnare un giovane in un percorso formativo che gli trasmetta 'il metodo', e lo metta in grado di affrontare lo studio autonomo di un contesto o di un problema. Il sapere si è frantumato in angusti ambiti specialistici, e mancano le occasioni di tirocinio per avvicinarsi alla maturazione di una professionalità valida. Un esempio di questa situazione è dato dalla istituzione di una laurea triennale in Beni Culturali, che di fatto non ha alcuno sbocco lavorativo alla luce delle vigenti leggi. Purtroppo, non vedo all'orizzonte una forza in grado di assumere la responsabilità della situazione, e che si preoccupi di creare quegli sbocchi occupazionali che sarebbero preziosi nella prospettiva di una economia interessata alla valorizzazione dell'ambiente. Nonostante questo, tuttavia, emergono sotto i nostri occhi figure positive di giovani capaci, che affrontano con determinazione un percorso arduo e ingrato, ed è questa, del 'genio italico', la risorsa alla quale è affidata la fiducia nel futuro.
Qual è il ricordo più bello e il ricordo più brutto del tempo trascorso alla Scuola e in Grecia?
Ricordo con emozione la Pasqua passata ad Atene, pochi mesi dopo l'arrivo alla Scuola, nel 1960. Decidemmo, con Gabriella d'Henry e Giovanni Colonna, di dedicare quei giorni allo studio del Pireo: il porto era ancora la seconda città della Grecia, una città di lavoratori, dotata di una robusta coscienza proletaria. Non era facile orientarsi nelle tre insenature, rincorrendo il tracciato del muro di Temistocle, legato alla scoperta del destino di Atene sul mare. Il nostro greco era poco più di un balbettio, ma i nostri generosi interlocutori ci facevano credere che la nostra fosse una prosa forbita, a tal punto erano lieti che si volesse imparare la loro lingua. Incontrammo un sindacalista, che era anche un poeta: facemmo amicizia, e ci invitò a passare la Pasqua con la sua famiglia. Era da poco uscita la canzone Ta pedià tou Pirea di Manos Hadjidakis, cantata da Melina Mercuri: avevamo scoperto un nuovo mondo!
Il momento più brutto? Quello in cui dovemmo lasciare Atene...
Sede della Scuola Archeologica Italiana di Atene fino agli anni '70, Leoforos Amalias 56, e il custode Kostìs Dargatzikas